Scrivo sempre meno. Perché faccio sempre più. Divisa tra il lavoro artistico da seminare, che a sua volta si moltiplica in mille rivoli, e la necessità che gli si restituisca il valore attraverso i diritti e le tutele di cui ha bisogno. Due cose che assorbono completamente, e delle quali pur agognando un punto definitivo a cui giungere, so che non è possibile. Non è così. Perché la vita, non è così.
Come per il palco, ciò a cui si giunge non è mai definitivo, è un tappa del lavoro incessante di ricerca. Gutta cavat lapidem, e come la goccia che scava la pietra, così è la ricerca artistica. Un lavoro di scavo che è penetrazione di sé – scoperta delle tante facce del prisma che siamo, delle domande che ci pongono, dell’accoglienza che ci chiedono, della ricchezza che ci offrono, gli stessi limiti, la sfida a superarli o la necessità di accettarli – che è sempre scoperta dell’altro, e dell’ universo intorno. Perché siamo specchio dall’altro. Quanto teatro c’è in tutto questo, una vita non basta, ed è per questo che il teatro è arte viva da secoli.
Mortificata dagli anatemi, soffocata dalle pandemie, ferita a sangue dalle condanne, umiliata dalle censure, amata e disprezzata dalle aristocrazie, sfruttata per il divertimento altrui (specchiandosi ed esorcizzando i cambiamenti dentro i confini della scena), sottratta ad ogni diritto e tutela, l’arte del teatro (e quando dico teatro includo tutte le forme performative) si vivifica, non posso dirlo diversamente, per la sua incontenibile, sprizzante, sanguigna, appassionata, travolgente voglia di vivere, rischiare, amare, ridere, appassionarsi, esprimersi, contaminarsi, toccarsi. Incarnarsi.
E allora teatro e lotta non possono che andare insieme, perché sono – esattamente – la stessa – cosa. E’ una riscoperta per molti, questo mi è chiaro, perché il teatro da troppo tempo è solo intrattenimento, comico o “impegnato” che sia; ma questa fase, come tutte le fasi post cataclismatiche, quelle che lasciano a terra solo macerie, è l’occasione per tornare a sperimentare, provocare, risvegliare l’intellingenza critica, la passione, il senso di sé risentendo la vita scorrere attraverso il proprio corpo, riconquistando la voglia di avere una vita degna di essere vissuta, la voglia di rischiare, per arrivare fino in fondo ai propri intenti.
Ecco, questo è il teatro, e questa è la vita. Una lotta.
Le macerie sono la scenografia giusta, perché la povertà di cose fa riscoprire i corpi, il contatto, le relazioni, le persone. Fa riscoprire che non serve altro, per vivere. E che è a questo, che va dato valore.
Ci vediamo il 27 in piazza.