SOGNO DI UN SOGNO DI RISVEGLIO

Come se la rivoluzione non fosse mai finita e un “altro modo di girare dei cervelli” non avesse mai smesso i pezzi vanno a posto e la strada per ricomporci si illumina. E mostra quanto è semplice l’uscita dal tunnel.
di @morgancrazy/bruni
luglio 2023
“Entrare fuori, uscire dentro”1. Un cavallo azzurro per le vie di Trieste aveva aperto la strada, e dopo 50 anni esatti l’utopia è diventata realtà. Perché non solo gli spazi manicomiali sono diventati l’incontro, ma i teatri si sono aperti per restituire nobiltà al lavoro, cancellando definitivamente la sua mercificazione. Sembra un’iperbole eppure è così, perché la rivoluzione è dilagata in tutti i settori, e la società intera ha incarnato l’articolo 3 della Costituzione Italiana.
E’ cominciata così: dentro un manicomio. Fa ridere a ripensarci, eppure è così. Ed è una cosa serissima. Iniziata con un atto semplice: uno spazio vuoto offerto agli artisti. Lì si poteva guardare, disegnare, dipingere, modellare i burattini, discutere, non fare niente, andarsene. Nel senso che tutti lo potevano fare. Artisti e “matti”, inservienti e infermieri, dottori e dottoresse, giardinieri e muratori, tecnici e pulitori. Il ruolo sociale era rotto, il muro cadeva, lo spazio si apriva infinito e, travalicando l’ambito da cui era partito, poneva una domanda al mondo: se chi insegna impara, chi cura è curato, chi ripara è riparato, perché il lavoro dovrebbe essere mercificato?
Allora anche i teatri si aprirono, in modo permanente, cosicché attori e tecnici, maestranze, sarte e sarti, trucco&parrucco, drammaturghe e drammaturghi, registe e registi, trovarobbe, direttori e direttrici di scena, direttori e direttrici artistiche, foto e videomaker, giornaliste e giornalisti degli uffici stampa, social media manager, scenografe e scenografi, disegnatrici e disegnatori, artigiane e artigiani del legno, della cartapesta, dei tessuti e del cuoio, delle pietre e dei metalli da allora cominciarono a lavorare in modo costante, non più intermittente, approfondendo le proprie arti e trasmettendole agli altri in modo che fosse possibile darsi una mano e sostituirsi dove necessario, o semplicemente per il desiderio di farlo. I bandi per la cultura e per il sociale furono aboliti e sostituiti con finanziamenti strutturali, riconoscendo così quanta importanza avesse poter dare continuità e solidità al lavoro senza più la preoccupazione economica, l’assillo del tempo o la mancanza di spazi necessari per far circolare quello che si concretizzava come un nuovo modo di essere al mondo, di vivere la vita: ora poteva espandersi come un reticolato di vene che portano sangue ad un unico cuore, pulsando la vita di un corpo unico.
Quel semplice atto inziale perciò si moltiplicò ovunque, e tutti i luoghi abbandonati divennero incubatori di produzione creativa nel senso più ampio del termine: non solo per il lavoro, ma anche per il divertimento, e per il riposo. Molti infatti diventarono ricoveri, trasformati in loft per quelli che fino ad un momento prima erano stati considerati gli ultimi: i poveri, i vagabondi, i senzatetto, migranti apolidi senza averlo voluto, zingari cui necessitava un riparo pulito che non sembrasse una gabbia con le sbarre alle finestre (come erano stati ovunque gli appartamenti delle città), e poi gli studenti e le studentesse fuorisede, e per le tante e i tanti uomini donne e bambini giunti da altri paesi. Fu straordinario: lo scambio fra esperienze e culture – dal cibo agli strumenti da lavoro, dal modo di abbigliarsi ai profumi, dalla tintura dei corpi all’arte, dalla letteratura alla poesia – moltiplicò la ricchezza di ciascuno in modo esponenziale.
L’indipendenza allora smise di essere sinonimo di abbandono, solitudine, “arte di arrangiarsi”: il paese in cui la dipendenza era stata fino ad allora garanzia di sicurezza, cambiava. Era la svolta: quella dinamica feudale, vassallaggio moderno, struttura fatiscente di un sistema mai uscito
dalla controriforma, la cui superfetazione era stata la produzione di denaro con il denaro e non più con il lavoro, non reggeva più.
E si vide allora che il teatro era una rappresentazione in scala della società:
Il mondo insegnante si mise in movimento. La scuola doveva avere un’altra organizzazione: gli insegnanti si accorsero di non poter insegnare separatamente le loro discipline, perché erano legate l’una all’altra in modo inscindibile. Storia, letteratura, filosofia, arte, religione, scienza, tecnica, matematica, fisica, chimica, economia e società: l’insegnamento non poteva che essere interdisciplinare, e non solo teorico. Bisognava partire dalla pratica perché allievi e allieve potessero misurarsi facendo, e poi deducendo dal lavoro pratico la teoria, attraverso la loro guida. Furono organizzate biblioteche superando i libri di testo (costosi anche perché la spesa era stata imposta alle famiglie ogni anno) le classi diventarono circoli di discussione e confronto, i compiti furono sostituiti dai gruppi di studio che preparavano relazioni alla classe, analisi del lavoro svolto sostituirono i voti, da parte degli insegnanti, anche qui in un confronto aperto con gli studenti. Il tempo pieno fu esteso dalle elementari alle superiori, perciò anche il momento del pranzo diventò un ulteriore momento di socialità, preludio alle attività artistiche del pomeriggio come teatro e musica, necessariamente in ensemble.
Anche il settore sanitario fu contaminato: la salute fu di nuovo considerata un bene primario, riaprirono le strutture territoriali, la prevenzione tornò ad essere la priorità, gli investimenti si moltiplicarono e a ruota le assunzioni, a cominciare dai tanti che avevano potuto seguire il corso di laurea in medicina dopo l’abolizione del numero chiuso.
Ed anche in questi due campi i finanziamenti per la ricerca si consolidarono diventando strutturali.
Ma l’attenzione ai bisogni primari non era finita: la casa tornò ad essere un diritto sociale, così come i trasporti e il risanamento del territorio: tornò alla mente Il “Piano per il lavoro” di Giuseppe di Vittorio – 1949, un altro mondo! – che smascherava la “famosa stabilità della lira, che il ministro del Tesoro considera un grande successo” come una “stabilità che manca di quella base reale data da una costante elevazione della produzione e dell’occupazione” e lanciava proposte concrete per affrontarle: costruzione di scuole, case, ospedali, centrali idroelettriche, bonifica del territorio e sviluppo dell’agricoltura. Tutte questioni attraverso le quali passava l’investimento pieno nel lavoro, che significava occupare “2 milioni di disoccupati” e restituire “condizioni di vita decenti per tutti”. Oltre a “un contributo fortemente progressivo di tutte le classi abbienti”, perché “con le buone o con le cattive occorre che essi paghino almeno una grande parte di quello che occorre per questi lavori”. Il piano si componeva di proposte molto concrete e dettagliate per ogni settore, a cui si aggiungeva la costituzione di alcuni Enti, tra cui “l’ente nazionale per l’elettricità”, quello per “l’edilizia economica e popolare”, quello per “le bonifiche, l’irrigazione e la trasformazione fondiaria”, “anche se – si legge – la realizzazione di essi colpisce interessi egoistici di alcuni grandi proprietari”. “Si realizzerà così un altro principio della Costituzione: subordinare l’esercizio del diritto di proprietà privata alle esigenze sociali del popolo, della nazione”. “Ma ricordiamoci, compagni lavoratori – precisava – che nessuno degli obiettivi potrà essere realizzato senza lotta”.2
Ma 70 anni di lotte non erano bastati, perché la ciliegina sulla torta di questo lungo inverno fu una dichiarazione di una presidente del consiglio: decisa a realizzare la società orwelliana dopo aver da subito attivato la sua “psicopolizia” per comprimere le libertà cominciando dai giovani (che fossero “disubbidienti” o che volessero solo divertirsi), completando il quadro con la cancellazione dell’unico sostegno che impediva di essere presi per fame, disse: “non si può pretendere di fare il lavoro dei propri sogni”. Ipse dixit. Che ridere! verrebbe da dire “moralismo malattia adulta dell’opportunismo” parafrasando il titolo di un celebre scritto d’altri tempi.
E’ lì che è scattata la molla, si è chiuso il cerchio e i sogni si sono materializzati. Eh sì, perché il mondo libero è salito in groppa a quel cavallo azzurro che aveva abbattuto i muri, sventolando la bandiera di quel mondo “a misura d’Uomo”, si diceva a quei tempi, che per troppo tempo era rimasta sepolta. Se l’Uomo è al centro (e la maiuscola sta ad indicare l’essere umano, non il genere) allora lo sono i suoi desideri e i suoi sogni. E se si parte da questi e non da ciò che è “economicamente” possibile, l’Uomo spezza le catene dell’alienazione per sentirsi di nuovo integro, e riconquista la vita.
Per questo la lotta aveva vinto. Con un elemento che ribaltava la concezione di un sistema basato sul lavoro come dispositivo disciplinare, sovrastato dal “tavolo verde” della finanza, dove la ricchezza in gioco era nelle mani di pochi.
Cosa poteva superare a sinistra, avrebbe detto Totò, tutto questo, se non l’immaginazione? E l’immaginazione non si alimenta con i soldi, ma con i sogni. Perciò solo il Reddito minimo universale incondizionato poteva, e ha potuto. Solo una base solida, che restituisse serenità ed eliminasse l’incessante preoccupazione di “guadagnarsi da vivere” (dio che allocuzione insopportabile! Se solo avessimo pensato al linguaggio che usavamo) poteva rivoluzionare quella concezione intollerabile che era stata la gabbia dell’umanità per troppo tempo.
Ed è stato questo il punto di svolta della rivoluzione, perché in tutti i settori tutti ora potevano godere di questo diritto, che consentiva di partire da una base solida che restituiva forza e autonomia, sbarrando la strada a qualsiasi possibilità di ricatto tra bassi salari e precarietà e creava le condizioni per realizzarsi pienamente, senza più essere costretti dalla necessità a vendersi come merce. Con la conseguenza, una volta tutelate le condizioni di vita per tutte e tutti, di restituire valore alla sua qualità.
Le donne abusate, vittime di violenze domestiche, prive di qualsiasi aiuto per potersi allontanare da quella tortura, potevano finalmente conquistarsi una vita libera cominciando dalla propria autonomia. E accanto a loro tutte le donne non dovevano più battersi per la parità salariale: il concetto era superato dai fatti, il cui obiettivo era stato raggiunto proprio per l’esistenza di quella base comune di partenza. E’ così che anche il lavoro di produzione di beni materiali ha ripreso valore e qualità, a cominciare dai cospicui investimenti sulla sicurezza. Oltre al moltiplicarsi dei posti di lavoro per gli ispettori e i sanitari addetti ai controlli, il punto sostanziale è stato che nei posti di lavoro si è ribaltato il concetto di produttività, sostituito da attenzione e cura del lavoratore, preparato ad occuparsi della nocività tanto quanto dei rischi connessi alle sue stesse mansioni. Fu riesumato il principio della “non delega” introdotto da un medico di fabbrica della quinta Lega Mirafiori 3 in tempi di crescenti lotte sindacali. Solo attraverso l’acquisizione chiara del lavoratore di tutto ciò che concorre al processo di produzione e all’organizzazione del proprio lavoro è possibile attivare la consapevolezza degli elementi di rischio che provocano gli infortuni
o le malattie professionali: un nuovo protagonismo consentiva di comprendere i problemi e intervenire. L’Uomo e non il profitto diveniva così il parametro che ha permesso di puntare all’eliminazione degli infortuni attraverso il ribaltamento dell’organizzazione del lavoro.
Va da sé che questo valeva anche per le donne e gli uomini fino ad allora sfruttati nelle raccolte stagionali, costretti a vivere in baracche fatiscenti subendo le angherie dei caporali, dentro una giostra schiavizzante che cancellava qualsiasi via d’uscita, tanto più se erano persone migranti. L’oppressione di un mondo affamato, vessato, martoriato da guerre, miseria, siccità, soffocato fra dittature e terrorismi, milioni di bambini malati, morti di fame, di padri e madri perseguitati, di famiglie smembrate, di memorie violate, era finita.
Ma c’erano anche le sottili vessazioni quotidiane riservate alle vite più tranquille. La deleteria tendenza allo sfruttamento dell’utenza, che si traduceva in ore di lavoro gratis dei cittadini inchiodati al computer a risolvere problemi burocratici senza più volto, invertì la tendenza: il settore dei servizi pubblici e privati, anche qui un’altra’emorragia occupazionale, vide il moltiplicarsi di posti di lavoro. Finalmente di nuovo esseri umani agli sportelli, finalmente relazioni fatte di occhi, sguardi, gesti, mani. Corpi. Parole gentili…
“il tempo di attesa stimato è di… 5 minuti…” tutututututu… oddio mi sono addormentata sulla tastiera la linea è caduta devo ricominciare la fila intanto chiamo l’agenzia delle entrate per sapere perché non mi versano il rimborso sulla dichiarazione dei redditi possibile che proprio chi fa l’Unico perché non è dipendente e perciò ha bisogno come il pane di questi soldi deve aspettare un tempo indefinito “numero non abilitato sui telefoni mobili” ma se abbiamo tutti i cellulari come è possibile e come è possibile avere utenze affitti mutui a scadenza mensile quando la maggior parte di noi non ha un’entrata mensile intrappolati come siamo nelle mille forme più fantasiose di “ contratto” le virgolette sono d’obbligo dopo aver rovesciato il criterio invece di imporre nella realtà il rispetto dei diritti assumendo che fosse costantemente disatteso tanto valeva definire la vessazione per legge come è possibile ritrovarsi il canone tv obbligatorio lasciando a noi l’onere della prova senza contare che chi non può fare l’esenzione online si ritrova un costo assurdo per la spedizione postale come si esce di qui o nonna nonna perché non sei qui a prendermi la testa fra le mani con tenerezza come facevi sempre quando mi vedevi affranta ripetendomi che “la soluzione è semplice e a portata di mano se guardi bene, non andare a cercarla lontano”… è vero nonnina, è vero… ma il cavallo azzurro è stato un sogno… no! Ora ricordo… come sempre nonna hai ragione… recuperare quel tempo, quel ritmo lento, tutto la memoria del mondo che vedo ancora nei tuoi occhi se chiudo i miei, dilatare il tempo ed il respiro, ritrovare le mie mani artigiane, intrecciarle con un nuovo “noi”: “entrare fuori uscire dentro”. ESC.
1 E’ stato lo slogan con il quale Franco Basaglia ha dato il via alla chiusura – o per meglio dire “apertura” – dei manicomi, atto di un percorso rivoluzionario che ha portato alla legge 180/78
2 Le conclusioni, da cui traggo questi passaggi, sono reperibili in Giuseppe Di Vittorio, Il “Piano per il lavoro”, in Dalla ricostruzione alla crisi del centrismo, a cura di M. e P. Pallante, Zanichelli ed, Bologna 1975, pagg 104 e segg. La relazione integrale è reperibile in Quaderni di rassegna sindacale, Roma, ESI, 1973, n. 41.
3 Il riferimento è alla dispensa “L’ambiente di lavoro” elaborata da Ivar Oddone, medico di fabbrica alla quinta Lega Mirafiori, insieme a Fiom, Fim Uilm. Il documento fa parte dell’archivio Cdr ora disponibile nel portale dell’Inail https://www.inail.it/cs/internet/attivita/ricerca-e-tecnologia/biblionweb-la-biblioteca-online/repository- inail-e-piattaforme-informative/repository-crd.html