L’euforia adolescenziale, il dolore di un’adultità condizionata, la maturità della ricomposizione. Un percorso doloroso, irto di ostacoli, che ci appartiene tutte. Perché lo abbiamo attraversato o lo stiamo ancora vivendo, o perché non è mai finito una società patriarcale. Questo dice Desdemona, ed è per questo che ciascuna l’ha riconosciuta dentro di sé. Con i nomi di Mimsy, Emy, Sofy nell’età dell’innocenza, gioiosa e sofferta a causa dei condizionamenti del contesto – familiare o sociale – con i nomi ritrovati della Memoria/Mnemosyne, della Natura Selvaggia/Artemide, della Conoscenza, Sofia, attraverso il prisma di tutti i nomi/omen scoperchiati: la donna onesta, la signora per bene, la ragazza scalza, serva, schiava, vergine, maga, puttana, folle…
Come veli di cipolla, strato dopo strato, vengono a galla tutti i lati che ci appartengono, che abbiamo vissuto, attraversato, che possiamo riconoscere in noi stesse riconoscendole nell’altra. Per questo Sofy veste i panni di una donna che potrebbe venire dai nostri territori marginali dove la mentalità del possesso sulle donne rischia di prevalere (anche se non dimentichiamo che è trasversale) ma che potrebbe essere una donna afghana, come le notizie recenti ci hanno drammaticamente ricordato, o comunque araba. Per questo, in questa seconda edizione de “Il Filo di Arianna”, tra le altre iniziative accanto allo spettacolo ho voluto allestire una mostra nel foyer del teatro dei graffiti di Shamsya Hassani, la street artist afghana che ha straordinariamente rappresentato la sofferenza delle donne sotto il regime talebano, e accanto le foto delle ragazze protagoniste del mio testo. E’ sorellanza, e ciascuna di noi sente l’altra nel profondo, ovunque si trovi su questa terra. Ed è per questo che la sorellanza persa si ritrova, facendo leva proprio su quel lato straordinario che le aveva fatte sentire una cosa sola, proprio quel lato perso nel divide et impera che scava solchi profondi per allontanarci, farci sentire sole e impaurite, impotenti di fronte a tutto ciò che a quel punto può esercitare un potere su di noi.
Chi sono io? cosa mi permette di non “disunirmi”, come grida Antonio Capuano a Filippo sugli scogli del golfo di Napoli? “E’ stata la mano di Dio” davvero? qui, di sicuro, a non disunirci è il gettarci in faccia tutto ciò che disprezziamo nell’altra, come vomitando quello che disprezziamo di noi, e svuotandoci ciò che rimane è la sostanza, il bandolo: cosa veramente ci identificava prima che ci perdessimo.
Le nostre passioni, i desideri, i sogni, l’immaginario nel quale noi eravamo “la cosa”. Che ora, riafferrata, ci renderà invincibili.
Lo spettacolo, andato in scena il 21 dicembre al Teatro 7 Off, ha avuto un enorme successo, alla faccia della pandemia e delle festività natalizie; un’ottima premessa per replicarlo presto, lavorando perché sia un nodo di una rete sempre più fitta di teatro come strumento utilizzato dalle donne per lastricare la strada di una nuova cultura, libera dalla violenza di genere, fatta di cura, di rispetto, dove il patriarcato sarà quel genere di favole che si raccontano ai bambini per spaventarli quando non vogliono andare a dormire. E che perciò non racconteremo.